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El secreto de la perilla del asesino
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El secreto de la perilla del asesino
Libro electrónico283 páginas3 horas

El secreto de la perilla del asesino

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El alguacil Buck Olsen es un veterano de 29 años en la aplicación de la ley que lamenta la pérdida de su esposa el otoño anterior. Con el crimen en la casa de su infancia en el condado de Beaufort restringido a un licor de luna ocasional o un niño con una bolsa de hierba, está contento de tener un camino fácil hacia la jubilación. Poco sabe Buck que un asesino en serie merodea el área alrededor de su casa de Killer’s Knob y ya ha cobrado 21 víctimas, enterrando a 8 de ellas a una milla de la casa de Buck. Pero el Asesino de la Hierba Azul no es un psicópata cualquiera. Ha estudiado asesinos en masa anteriores y sus métodos, ha descubierto cómo matar una y otra vez sin ser atrapado y no tiene intenciones de detener su alboroto mortal en el corto plazo. Con el descubrimiento de la última víctima del asesino por el propio Buck, la atención nacional se centra en el condado de Beaufort y el FBI desciende al tranquilo idilio rural a medida que la investigación entra en acción. Para sacarlo, Buck acepta convertirse en un objetivo y cuando el asesino comienza a acecharlo, se produce un juego mortal del gato y el ratón. Eventualmente conducirá a una confrontación entre dos hombres con agendas muy diferentes, donde lo que está en juego es lo más alto posible y solo uno sobrevivirá.

IdiomaEspañol
EditorialBadPress
Fecha de lanzamiento9 nov 2021
ISBN9781667412054
El secreto de la perilla del asesino
Autor

Darrell Case

Darrell Case grew up during a time when neighbors were respected friends and family was loved and cherished. From an early age his imagination ran wild. He roamed the pastures and fields as an explorer and built cabins out of 10-gallon milk cans and old sheets of tin. He played alone without being lonely. Never an “A” student, Darrell perfected the art of hiding a novel behind a textbook. While his classmates labored over equations, Darrell sailed the seven seas, climbed mountains and fought in foreign wars, all within the confines of the hot, stifling classroom. In high school, his favorite room (yes, he did make it that far) was the library. There he devoured such books as Big Red and Lad of Sunnybrook, among others. To Darrell, an author’s ability to transport his or her reader to another time and place made them larger than life. After high school, Darrell embarked on the lofty career of mowing graveyards. Spending hours alone, he dreamed of what life would hold for him. In 1994 he decided to try his hand at writing. As with most budding authors, Darrell didn’t know how to write. Despite his talent as a vivid storyteller, his lack of attention in school left him with a lot to learn about the technicalities of English usage. Published in 1996, his revised version of Never Ending Spring was one of the first eBooks. An earlier version of it sold six copies. That same year Darrell began writing for a daily devotional titled “Call to Glory.” Today that publication has grown to the point where it’s considered the standard of daily devotions. According to its website, “Call to Glory” prints and distributes well over 30,000 copies per month. Darrell’s time continues to be divided between jail and prison ministry and writing.

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    El secreto de la perilla del asesino - Darrell Case

    Per mia sorella Betsy Case, che ha accolto Cristo tardi nella sua vita,

    ma non troppo tardi.

    RINGRAZIAMENTI

    ––––––––

    U

    n libro è come una persona. All’inizio, potrebbe non sembrare niente di speciale. Eppure sin dalle prime pagine, prende piede una personalità, uno spirito nato dalla mente dell’autore. Poi, con ogni giorno che passa, il libro prende forma.

    Prima arriva il seme della storia. Può restare in incubazione nella mente dell’autore per mesi, alle volte per anni. Con l’apparire dei personaggi, lo scrittore impara a conoscerli come fa una madre coi propri figli. Li vediamo svilupparsi. Ma, diversamente da una madre, carichiamo i nostri personaggi di tribolazioni, problemi e sofferenze che li fanno evolvere in persone reali. Le afflizioni della vita si ripercuotono sulla mente dell’antagonista tanto quanto su quella degli eroi. Se noi come autori facciamo bene il nostro lavoro, il lettore amerà il buono e detesterà il cattivo. Nei miei libri, io mi impegno a mostrare cos’ha fatto diventare malvagio l’antagonista.

    Come in ogni processo di scrittura, ci sono state persone che hanno collaborato e mi hanno incoraggiato lungo il cammino. A Nostro Signore Gesù Cristo, che mi guida di giorno in giorno; a mia moglie, Connie, una vera donna virtuosa come descritta nei Proverbi 31 della Bibbia e mia fedele compagna da quasi 40 anni; a Mary Ellen Spurlin, la mia editor, che attenua il male e accentua il bene. Grazie all’ex Sceriffo della Contea di Clark Jerry Parsley per aver accettato di posare per la copertina. Ai miei fedeli lettori così come a quelli nuovi che incontro lungo la via. A tutti rivolgo un ringraziamento di cuore.

    Copertina realizzata da The Roze Lof

    INDICE

    ––––––––

    Ringraziamenti

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Epilogo

    A proposito dell’autore

    Capitolo 1

    S

    i fece largo tra la boscaglia, tra i rovi pieni di more e tra i cardi, senza preoccuparsi del fatto che gli si impigliavano nei vestiti. Quel trofeo avrebbe completato la sua collezione di vittime sepolte sulla Collina dell’Assassino. L’ultima a riposare sotto quel desolato pezzo di terra nel Kentucky. La donna, sebbene minuta, diventava sempre più pesante dopo ogni passo.

    Si fermò per spegnere la lanterna prima di incamminarsi lungo la collina. Lasciò cadere a terra il corpo e fece ruotare le spalle per alleviare i dolori muscolari. Attese che i suoi occhi si abituassero all’oscurità. La luna piena faceva di quando in quando capolino da dietro alle nuvole. Guardò il quadrante illuminato del suo orologio: le 02:10. Ad ovest un fulmine squarciò il cielo. La tempesta si stava avvicinando, aveva meno di un’ora di tempo.

    Sentì il verso di un gufo provenire da una quercia vicina. Era a conoscenza del fatto che alcuni Nativi Americani credevano che i gufi custodissero gli spiriti dei defunti. Che lei fosse lì, ad osservare il suo assassino che si preparava a seppellirla? Il pensiero gli provocò un brivido, ma non era una sensazione sgradevole. Con un’occhiata all’addensarsi di quelle nubi da temporale, sollevò il cadavere della donna e riprese ad arrampicarsi lungo la collina. Una volta raggiunta la cima, se la fece scivolare giù dalle spalle, facendole sbattere la testa contro una lapide. Non importava. Ormai non poteva sentire più nulla.

    Scrutò il terreno pianeggiante sotto di lui. Non c’erano luci a quell’ora del mattino, probabilmente era l’unico sveglio. C’era solo una casa nel giro di due chilometri. Negli ultimi cento anni, solo le sue vittime erano state sepolte in quel terreno dimenticato. La prima l’aveva seppellita lì tre anni prima. Questa sarebbe stata l’ultima. Il giorno dopo avrebbe cercato un altro cimitero, una zolla di terra in cui l’erba cresceva spessa e i defunti riposavano nell’oblio.

    Aveva commesso il suo primo omicidio la notte dopo l’elezione di Buck Olsen a sceriffo della Contea di Beaufort. Aveva 19 anni, era alle prime armi. Persino da adolescente i serial killer lo avevano sempre affascinato.

    Vicino alla casa nella vallata, la luce della luna si rifletté sul parabrezza della volante di Buck Olsen. Da quando sua moglie era morta l’autunno precedente, Buck dormiva poco e male. Lo sceriffo rimaneva a casa a meno che non vi fosse un incidente sulla Route 5 o se un agente si dava malato. Beaufort County era un posto tranquillo in cui vivere, non c’era mai grande azione eccetto qualche tossico e un paio di contrabbandieri. Cinque anni prima, un tizio di Indianapolis aveva rapinato la banca locale. Ma non era andato troppo lontano, Buck l’aveva inseguito e catturato prima ancora che arrivasse l’FBI. Adesso quel tizio era al fresco nella prigione federale di Terre Haute, Indiana.

    Il crimine raramente visitava Beaufort County. E quando lo faceva, Buck gli stava addosso come un cane con l’osso.

    Ma Buck non sapeva che quell’uomo aveva fatto della Collina dell’Assassino il suo cimitero privato. Quel killer aveva studiato i più famosi: Jeffrey Dahmer, John Wayne Gacy, eccetera. Era stato attento a focalizzarsi sugli errori che avevano commesso e come erano stati catturati.

    La maggior parte aveva fatto qualcosa di stupido. Avevano sepolto le loro vittime in fosse poco profonde, o avevano seminato degli indizi per provocare la polizia. Un serial killer, Gary Ridgway, sopranominato l’assassino del fiume Green era sfuggito alla cattura per anni. Non riusciva proprio a capire come Ridgway fosse riuscito ad agire e a gettare le sue vittime nel fiume Green e così a lungo senza essere beccato.

    Trovò il punto giusto per la sua ultima vittima, affondò la pala nel terreno e si fermò. Sì, era proprio il posto adatto a lei. Con lei avrebbe chiuso il cerchio. Scavò per 30 minuti. Il terreno, reso più soffice dalle recenti piogge, si rivoltava facilmente. Aveva appena colpito qualcosa che poteva essere l’osso di un bambino quando una luce baluginò dal retro della casa di Buck. Si bloccò di colpo anche se lo sceriffo non avrebbe potuto comunque vederlo, pur con la luna ben nascosta dietro le nubi. Rimase immobile, gli occhi fissi sulla luce.

    Si accese anche la luce del bagno di Buck. Tre minuti più tardi venne spenta, e anche quella della camera da letto la seguì a ruota.

    Ora che la casa era nuovamente avvolta dall’oscurità, riprese a scavare. Quello che aveva creduto essere un osso si rivelò invece una radice marcita. Scavò per altri cinque minuti e rinvenne una piccola mano scheletrica. Si rimise a scavare alla sinistra di quest’ultima, scendendo sempre più in profondità. Diede uno sguardo al cielo; circa otto chilometri a sud, i lampi illuminavano tutta la zona. La fossa non era abbastanza profonda, ma a breve avrebbe iniziato a piovere e non sarebbe riuscito a tornare al suo furgone asciutto. Stava forse dimenticando qualcosa? Cos’era? Non riusciva a pensarci. Si spremette le meningi. Poi scrollò le spalle, e fece rotolare il cadavere dentro la fossa. Avvertì la vaga sensazione di dover dire qualcosa. Ma cosa? Non era un tipo religioso. Lo avevano trascinato in chiesa ogni domenica fino ai tredici anni, dopodiché si era rifiutato di andarci.

    Le sue vittime erano ragazze la cui scomparsa non sarebbe stata notata per mesi, o forse mai. Le prendeva dalla strada, dalle stazioni degli autobus o dai depositi ferroviari. Si camuffava e chiacchierava con loro per farle sentire a loro agio. Riusciva subdolamente a farsi rivelare dettagli sulle loro vite. Se viaggiavano con qualcuno, le lasciava perdere. Pinky era diversa. L’aveva scoperto solo dopo averla rapita. Se suo padre non avesse ricevuto sue notizie ogni sera, avrebbe contattato le forze dell’ordine del luogo in cui pensava si trovasse al momento. Quando l’aveva scoperto, ormai era troppo tardi per tornare indietro. Pinky non avrebbe più girovagato.

    Pinky. Si domandò come mai suo padre la chiamasse così. Prima di iniziare l’esperimento, gli aveva parlato di suo padre come se fosse una specie di santo: onesto, timorato di Dio, severo ma gentile, si era dedicato all’agricoltura per anni fin quasi a spaccarsi schiena e ginocchia pur di mantenere la sua famiglia. Pinky era la sua unica figlia, e per lei voleva molto di più, e quanto di meglio.

    In piedi davanti alla sua tomba, l’assassino di Pinky scacciò il pensiero che qualcuno potesse trovarla. Da tempo si vociferava che quella collina fosse infestata. Ma non se ne preoccupava: non credeva agli spettri. Era ben più spaventoso lui di qualunque fantasma.

    E poi, nessuno andava più sulla Collina dell’Assassino da anni. Si sentiva al sicuro.

    Cosa avrebbe dovuto dire? Non conosceva alcun versetto della Bibbia. E anche se ne avesse conosciuti, non era proprio il caso che un assassino recitasse dei passi del Libro di Dio davanti al corpo della propria vittima. Un momento, il giorno prima quel predicatore gli aveva dato il suo biglietto da visita. Lo tirò fuori dalla tasca della camicia. Sforzandosi per riuscire a leggerlo, vi avvicinò il volto fin quasi a toccarne la superficie con la punta del naso. Borbottò il nome del pastore, il nome della chiesa e tutto il resto che c’era scritto. Forse, dal momento che quel biglietto aveva toccato le dita di un predicatore, quelle parole sarebbero potute giungere a Dio. Un tuono potente come uno sparo lo fece sussultare. Un lampo balenò sulla vetta della collina, illuminandolo. Si sbrigò a finire di sotterrarla. Il vento si fece più forte, investendolo. Era fresco e rigenerante. Un tuono rimbombò. La luce in casa di Buck si accese di nuovo. Doveva andarsene da lì alla svelta. Sentì indistintamente il cane di Buck che ululava. Pinky: numero otto, il completamento delle sue tombe sulla Collina dell’Assassino. Indugiò, prendendosi il tempo di piallare la terra fradicia che ricopriva la fossa, poi spinse una grossa roccia sopra il fango per segnarla. La lapide diceva che il bambino sepolto accanto a lei si chiamava Stephen. Adesso con lui c’era una sorta di madre per accompagnarlo verso l’eternità. Nessun altro sarebbe stato sepolto lì, il giorno seguente avrebbe cercato un nuovo cimitero.

    Guardò la tomba di Pinky per un’ultima volta e poi, afferrata la sua pala, corse giù per la collina. Non doveva fare altro. Era a metà strada dal furgone quando iniziò a piovere. Gocce grandi e pesanti come pallottole liquide gli caddero addosso. Quando riuscì a raggiungere il pickup, era fradicio. Persino i suoi stivali erano pieni d’acqua. Fresca persino in quella calda notte, la pioggia lo ritemprò. Dopo essersi svuotato gli stivali, rimase seduto ad ascoltarne il rumore mentre picchiava sul tettuccio.

    Chiuse gli occhi, ripensando a lei. L’aveva vista quel pomeriggio mentre faceva l’autostop sulla Route 5, appena a sud di Barstow. Erano passati mesi dal suo ultimo omicidio. Era il momento di compierne un altro. Lei era snella, quasi slanciata, e giovane. Di sicuro aveva poco più di vent’anni. Il suo volto era a forma di cuore, la carnagione rosea e i capelli biondo ramato. Era proprio il suo tipo. Il battito del suo cuore era accelerato, il suo respiro si era fatto affannato. Era lei, era la sua prossima vittima.

    Pensava che avrebbe sollevato il pollice. Ma non l’aveva fatto. Aveva tenuto lo sguardo rivolto a terra mentre lui la superava. Prudente, la cosa gli piaceva. Rendeva il gioco molto più divertente. Superata la collina l’aveva persa di vista.

    Ci avrebbe provato. Un paio di chilometri più avanti, aveva accostato a lato della strada, fingendo un guasto alla macchina. Nei pomeriggi infrasettimanali come quello, c’era poco traffico in quel tratto di strada. Sapeva che lei non avrebbe dovuto aspettare a lungo per trovare un passaggio. Avrebbe rischiato di perderla; ma era parte del gioco. Nel caso, avrebbe ripreso la caccia. Sapeva che agli occhi della gente una giovane donna che viaggia da sola non rappresentava un potenziale pericolo come invece un uomo. Inoltre, si sarebbe sentita più a suo agio se nella macchina che accostava per farla salire ci fosse stata una donna o un bambino. Doveva apparirle innocuo. Allo stesso tempo, se qualcuno li avesse visti insieme sarebbe stato costretto a risparmiarla e a cacciare altrove. Era uscito dall’auto e aveva aperto il cofano. Non aveva dovuto aspettare a lungo. Era passata un’auto, che viaggiava in direzione opposta. Lui aveva tenuto la testa bassa, sbirciando attraverso l’apertura tra il cofano e il parabrezza. Gli occhiali scuri e la barba finta celavano il suo aspetto. Avanzando da una piccola salita lungo l’autostrada, lei era entrata nel suo campo visivo. Nel vederlo, aveva esitato. Aveva continuato a camminare, iniziando ad attraversare la strada. Vieni nella mia stanza, disse il ragno alla mosca, aveva sussurrato lui. Si era raddrizzato e le aveva rivolto il suo miglior sorriso in stile Ted Bundy. Alcune donne ritenevano Bundy attraente, almeno finché non lo guardavano negli occhi. Il sorriso di Bundy era affascinante, i suoi occhi freddi e duri come rocce.

    Se ne intende di motori? le aveva chiesto a voce alta. Andava tutto bene finché non ho sono arrivato in cima alla salita.

    No, mi dispiace. gli aveva risposto lei, camminando lentamente verso di lui.

    Beh, siamo in due, aveva detto lui mentre tirava fuori il cellulare. Penso sia meglio che chiami aiuto. Non posso far tardi, stasera ho un concerto.

    La ragazza era rimasta a qualche metro di distanza, poco lontana dal cofano posteriore, pronta a scappare in caso di pericolo. Un concerto? È un cantante?

    Batterista e seconda voce, aveva risposto, tastando il manganello che il cofano aperto nascondeva alla vista di lei. Se lo infilò nella tasca posteriore dei jeans. Conosce Garth Brooks?

    Il volto di lei si era illuminato con un ampio sorriso. Garth Brooks! Caspita, è il mio cantante preferito. Lei suona e canta con lui?

    Già, e ogni tanto gli do una mano con la chitarra, aveva risposto. Si era raddrizzato e le aveva sorriso. Ehi, sa che le dico? Se stasera sarà a Nashville, potrei riuscire a farla entrare nel backstage per incontrare Garth.

    Il sorriso di lei era vacillato. È impossibile che riesca ad essere a Nashville entro stasera. È troppo lontana.

    Beh, io devo andare proprio lì, può unirsi a me se vuole. Era squillato il suo cellulare. Un call center. Tempismo perfetto. Aveva premuto il pulsante per rifiutare la chiamata e si era portato il cellulare all’orecchio. Aveva pensato di fare una finta telefonata, ma così era di gran lunga meglio. Pronto? Sì, Brian? Cosa? No, non preoccuparti, ci sarò. Sono a circa 200 chilometri di distanza, sulla Route 5, mi si è rotto il furgone. Ma se non riesco ad aggiustarlo nella prossima ora, io... certo, manda l’elicottero. Sarebbe fantastico. Ok, ti faccio sapere. Si era rimesso il cellulare in tasca.

    Brian Petrie. È il manager di Garth. Bravo ragazzo, solo un po’ strano. le aveva sorriso. Ma del resto, lo siamo tutti. Lei aveva sorriso timidamente. La cosa stava andando troppo per le lunghe. Stava cercando di escogitare un modo per fare la sua mossa senza spaventarla. Ma ci aveva pensato lei al posto suo.

    Ok, mi faccia dare un’occhiata, aveva detto Papà lavorava con i motori, e io lo stavo a guardare. Era diventato così bravo che persino i nostri vicini alla fattoria si facevano aggiustare i trattori da lui. Ovviamente se non c’era troppo da sistemare. L’aveva raggiunto davanti al pickup, poi aveva abbassato la testa sotto il cofano. Lui era indietreggiato così che lei non si sentisse minacciata, poi aveva lentamente estratto il manganello.

    A volte il cavo della batteria si allen... L’aveva colpita alla testa quanto bastava per farle perdere i sensi. L’aveva sorretta prima che cadesse a terra. Era più leggera di quanto sembrasse. L’aveva stesa sulla cuccetta del furgone e l’aveva coperta con un’incerata blu. No, così non andava. E se si fosse svegliata? Era corso di fronte al furgone e aveva richiuso di botto il cofano. L’aveva sollevata, poi l’aveva stesa a terra nel lato passeggero. Le aveva sollevato una palpebra. Era crollata come un salame. Non c’era bisogno di legarla. Aveva afferrato l’incerata blu e l’aveva coperta. Era saltato a bordo, aveva messo in moto il furgone e si era immesso sulla carreggiata. Un paio di chilometri più avanti, aveva superato un’auto della polizia che viaggiava in direzione opposta. Aveva riconosciuto il guidatore. Rodney Newen, il vicecapo sceriffo, che andava a tutto gas, a sirene spiegate e con i lampeggianti accesi. Rodney aveva guardato l’assassino appena di sfuggita.

    Capitolo 2

    Q

    uando l’aveva portata nella sua stanza segreta nello scantinato del cottage, era ancora priva di sensi. Se la sarebbe presa comoda con lei. Tenendola contro il muro con una mano, aveva fatto scattare intorno alla sua caviglia sinistra il primo dei quattro anelli in acciaio incastonati nel muro. Aveva appena finito di immobilizzarle le mani, quando era rinvenuta. Sapeva che lui l’avrebbe uccisa. Si era allontanato e aveva iniziato a predisporre la videocamera. Era un apparecchio piccolo, che poteva registrare per ore su un’unica scheda di memoria. Aveva aperto le gambe del treppiede e puntato l’obiettivo verso di lei, regolandolo più volte finché non era stato soddisfatto. Una volta finito con lei, avrebbe rimosso quella scheda e l’avrebbe aggiunta alla sua collezione. In passato aveva scattato delle foto, ma non riuscivano a catturare l’eccitazione e l’intensità dell’omicidio. Così invece poteva riviverne con precisione ogni singolo istante. Aveva premuto il bottone, e la luce rossa aveva iniziato a lampeggiare.

    Che stai facendo? La voce della ragazza tremava di paura e terrore. Lasciami andare. Ti prego non farmi del male! Grosse lacrime le scivolavano lungo le guance arrossate fino a colarle dal mento. Aveva urlato. Aiuto, aiuto! Vi prego, qualcuno mi aiuti!

    Lui le aveva sorriso, gli occhi freddi come il ghiaccio. Grida pure quanto ti pare. Non ti può sentire nessuno. Si era seduto sulla vecchia sedia da cucina e l’aveva osservata lottare contro le catene. Dopo alcuni minuti si era calmata, e piagnucolava sommessamente.

    Cosa vuoi fare? aveva lagnato. Lui odiava quando lagnavano. Lo aveva guardato con fare supplichevole. Ho del denaro. Mio papà ha del denaro, e se non basta te ne procurerà altro.

    Non è il tuo denaro che voglio. È il tuo sangue, aveva detto lui, ghignando. La ragazza allora aveva emesso un grido, lungo e forte, e le lacrime si

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